Un po’ di storia
Vitorchiano, nel Viterbese, era sede di un abitato
già nell’Età del bronzo.
La vite era già coltivata in questo territorio ancora prima della nascita di Roma, anche se a quei tempi le popolazioni locali si dedicavano prevalentemente alla pastorizia.
La fondazione della città e la sua affermazione costituirono un fatto fondamentale per la storia della vite e il vino, oltre a essere impiegato nelle offerte sacrificali, cominciò a essere gustato dalle varie tribù. Tutto questo portò al miglioramento delle tecniche colturali e alla diffusione della vite, in particolare sui colli vulcanici dei Castelli Romani, dove trovava con l’olivo il suo habitat ideale, come ricordano nei loro carmi Tibullo, Orazio, Catullo e Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia.
Il vino iniziò a essere più presente sulle mense nell’Età repubblicana, e la coltivazione della vite, seppure in continua espansione, avveniva in forme rudimentali, essendo sempre maritata all’albero.
Fino al I secolo dell’Età imperiale, i vini laziali, a eccezione di quelli di Albalonga, furono scarsamente apprezzati dai Romani, che preferivano i vini campani, e il poeta Orazio scrisse di vini di qualità, come il Caleno, il Falerno e il Formiano, che avevano l’attitudine – al contrario di quelli laziali – a tollerare bene l’invecchiamento e il trasporto.
Nonostante la Lex Marciana – promulgata da Domiziano nel 92 d.C. per limitare la produzione eccessiva di vino –, che sanciva la soppressione di metà delle vigne e il divieto assoluto di nuovi impianti, ampiamente disattesa, la vite laziale sopravvive al crollo dell’Impero e alle invasioni barbariche, per rifiorire nell’Alto Medio Evo, grazie all’opera dei Benedettini e di altri ordini monastici.
Successivamente, le corrette norme per la tenuta della vigna sono codificate nel 1406 da Papa Gregorio XII nei suoi Statuti dell’Agricoltura.
Nel XVI secolo, con Paolo III Farnese, nella Corte Papale appare la carta dei vini, nella quale sono presenti il Moscatello di Montefiascone, il Rosso di Terracina, il Monterano, il Caprarola, il Cerveteri, il Bagnaia, il Tolfa, il Bracciano, l’Albano, l’Ariccia e altri ancora. Infine, è citato il vino della vigna della Magliana, località corrispondente ai Colli portuensi, fatta impiantare da Leone X e considerata eccezionale per il vino che produceva.
Questo quadro ampio e completo non muterà molto nei secoli seguenti, anche in considerazione del fatto che lo Stato della Chiesa era rimasto fuori dai movimenti scientifici e innovatori del XVIII e del XIX secolo.
Solo con l’avvento dei piemontesi si avrà un vento di rinnovamento, anche se ormai il Lazio è diviso in tre zone viticole distinte: Frosinone, Viterbo e i Castelli Romani. Nelle prime due predominano ancora le viti maritate, nell’ultima il sistema a conocchia, in pratica quattro viti in quadrato, legate a canne e a forma di piramide.
Per vedere in auge i vini laziali bisognerà attendere il 1923, quando la Regina di Inghilterra si innamora del Frascati e lo vuole nella cantina di corte. Ma anche nel Lazio giunge la fillossera e il vigneto laziale è costretto a rinnovarsi per sopravvivere. Purtroppo lo farà con un occhio più aperto verso la quantità piuttosto che verso la qualità.
L’ambiente pedoclimatico
Morbide colline vocate per la viticoltura.
Il Lazio si estende su un territorio di oltre 17.000 kmq, prevalentemente collinare e bagnato dal Mar Tirreno.
Il versante appenninico fa parte dei grandi massicci centrali di antica origine geologica (Monte Terminillo 2213 m) ed è costituito essenzialmente da rocce calcaree permeabili, con un aspetto arido, brullo e con fenomeni di carsismo. Scendendo verso sud, alla destra del Tevere si trovano tre gruppi montuosi di origine vulcanica che degradano verso la costa pianeggiante, e la Maremma laziale, i cui crateri principali sono occupati dai laghi di Bolsena, Vico e Bracciano.
Al di là del Tevere sono presenti altre zone collinari arenacee e marnose, tra le quali i Monti Albani, sempre di origine vulcanica, nei quali si trovano i laghi di Albano e di Nemi e, infine, i Monti Lepini, Ausoni e Aurunci, di origine calcarea.
Il litorale è basso e piatto, con alcuni promontori come il Monte Circeo, quello di Gaeta e Capo Linaro.
Le zone più vocate per la viticoltura si trovano sulle pendici collinari dei rilievi di origine vulcanica, che presentano terreni permeabili e di buona struttura, essenzialmente lavico-tufacea. I terreni dei Colli Albani si distinguono per l’abbondante presenza di potassio, elemento chiave per l’arricchimento aromatico delle uve, e danno origine ai vini laziali di maggiore qualità. La pianura di Tarquinia e l’Agro Pontino presentano anch’essi terreni permeabili, di medio impasto, con sabbia, limo e argilla, molto adatti alle coltivazioni ortofrutticole e per vigneti a coltura specializzata, di grande espansione e produttività.
Tutti i fiumi laziali sfociano nel Mar Tirreno, a eccezione del Tronto che scende nel Mare Adriatico. Il fiume principale è il Tevere, nel quale convergono il Velino, il Salto e il Turano, tramite il Nera e l’Aniene. Andamento simile al Tevere hanno anche il Liri e il Sacco, entro solchi vallivi variamente orientati. Oltre ai laghi già citati, vanno ricordati quello di Piediluco nella conca di Rieti, e quelli del Turano e del Salto nell’Appennino.
Il clima è ovunque temperato, con rilevanti differenze di temperatura e di umidità tra la fascia costiera e le zone più elevate dell’interno, dove sono più accentuate le escursioni termiche, soprattutto stagionali.
Le precipitazioni hanno una frequenza inferiore alla media delle altre regioni dell’Italia Centrale, anche se sono caratterizzate da brevi temporali, più abbondanti sui rilievi appenninici, dove in inverno compare spesso la neve. Predominano i venti di maestrale, ponente e scirocco, ed è impetuoso il libeccio, che determina una certa variabilità climatica.
In alcune zone collinari dell’Appennino, sui rilievi di origine vulcanica e nei crateri che ospitano numerosi bacini lacustri, si presentano frequentemente condizioni microclimatiche favorevoli alla coltivazione della vite.
La gastronomia
La cucina laziale si identifica soprattutto con quella romana, con l’eccezione di una certa originale identità per quella dei Castelli Romani.
Verso la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, il patrimonio gastronomico, vero e genuino, risulta modesto e basato su ingredienti poveri, insaporiti da aromi e spezie, senza complicate elaborazioni, con alcune preparazioni condivise con le regioni limitrofe e con profondi influssi della cucina ebraica, presente da sempre in una comunità in Trastevere. Questo patrimonio tradizionale è mirabilmente sorretto dal forte amore per la tavola e dal carattere conviviale, fatto per compagnie allegre e numerose e per appetiti vigorosi. E una cucina che vede mare e pianure, colline e montagne, prende tutto il meglio e lo amalgama nel grande ventre della capitale.
I piatti caratteristici di questa regione sono numerosi, ma pochi gli antipasti, anche se si possono ricordare la bruschetta, i carciofini e le melanzane sott’olio, i fiori di zucca ripieni – fritti con all’interno mozzarella, prezzemolo e filetto di acciuga –, il supplì al telefono – fritto nell’olio extra vergine con un ripieno di ragù e mozzarella, che si allunga in fili quando se ne stacca un boccone –, i crostini di provatura, il prosciutto di cinghiale e quello saporito.
Tra i primi piatti si possono gustare gli gnocchi alla romana – obbligatori il giovedì! – a base di farina e patate lessate con ragù di carne o sugo di pomodoro e basilico. E poi tante versioni di spaghetti: cacio e pepe oppure aglio e olio, spaghetti o bucatini all’amatriciana, con varie combinazioni di soffritto, con cipolla, aglio, olio extra vergine, guanciale di maiale, pomodori freschi, pelati o casalini, peperoncino e pecorino. E ancora spaghetti o maccheroni alla carbonara con olio extra vergine, pancetta, pecorino e uovo sbattuto, di chiara derivazione maremmana.
Qualche altro esempio? Le penne all’arrabbiata – con pomodoro, olio extra vergine e abbondante peperoncino –, i maccheroni con la ricotta o con i bocconcini, il timballo alla Bonifacio VIII – maccheroni conditi con rigaglie di pollo, sugo di carne, polpettine, funghi e tartufi –, i rigatoni con la pajata – maccheroni rigati con un sugo a base di pomodoro, interiora di vitello e pecorino –, la pasta con i broccoli in brodo di arzilla, di tradizione giudaico-romanesca, e le fettuccine al burro, tagliatelle di notevole spessore.
Tra i secondi piatti l’agnello è il vero dominatore e trionfa nell’abbacchio alla romana – con strutto, aglio, rosmarino, filetti d’acciuga e una spruzzata di aceto –, seguito dall’abbacchio brodettato, alla cacciatora e ai carciofi, oltre che dalle costolette d’abbacchio scottadito.
Un’antica preparazione a base di carne è il garofolato di manzo, un umido abbondantemente lardellato con chiodi di garofano, maggiorana, aglio e pepe. Profumati e saporiti sono i saltimbocca alla romana – fettine di vitello farcite con prosciutto e qualche fogliolina di salvia, ripiegate e chiuse da uno stecchino, cotte con olio extra vergine, burro e vino bianco –, lo stufatino con il sellero – sedano –, il lesso rifatto in umido, le polpette alla romana e gli involtini di cavolo con carne tritata aromatizzata.
La polvere di cacao amaro è un ingrediente un po’ curioso
della coda alla vaccinara.
La cucina romana ama e utilizza molto le interiora e i tagli meno pregiati per la preparazione di piatti plebei. Tra i più rappresentativi si possono ricordare la coda alla vaccinara – coda di bue stufata a lungo con cipolla, salsa di pomodoro, tanto sedano, vino e un cucchiaio di cacao amaro in polvere –, la trippa alla romana, le animelle con carciofi e piselli, i fegatelli imprigionati – fegato in rete di maiale con strutto e alloro – la milza alla cacciatora, la pajata arrosto, la coratella con i carciofi, il torciolo – pancreas – e il cuore di bue arrosto. E poi ancora il tradizionale pollo con i peperoni, il tacchino arrosto, lo spezzatino di coniglio al vino, le spuntature di maiale in umido, le cotiche con i fagioli.
Anche i prodotti ittici si ritagliano uno spazio a tavola, seppure meno significativo rispetto alle carni, con il palombo al formaggio – fette di palombo con formaggio saporito, uova, olio extra vergine, burro e limone –, le seppie in bianco o con i carciofi, le ciriole alla fiumarola – preparate in tegame con capperi, aglio, acciughe e vino bianco –, l’anguilla del Lago di Bolsena arrostita sulle braci di alloro, gli involtini di sarde, il baccalà in guazzetto, i filetti di baccalà fritti in padella e il luccio brodettato alla romana.
Altri piatti di grande tradizione sono le lumache alla vignarola e gli stuzzicanti fritti: il fritto della vigilia di Natale – piccoli pezzetti di broccoli, cavolfiori, zucca, baccalà e polpettine di palombo, tutti in pastella – e il fritto alla romana, che propone cervella, animelle, schienali, carciofi, testina e fegato di vitello, zucchine, ricotta, fiori di zucca, fettine di mela renetta e pezzetti di pane, il tutto dorato con farina e uovo.
Un posto di rilievo sulle tavole laziali è occupato dagli ortaggi, tra i quali primeggiano i carciofi alla giudìa – cotti letteralmente a bagno nell’olio extra vergine –, alla romana – con aglio, mentuccia, sale e pepe, cotti ritti in tegame, con il gambo all’insù – e alla matticella, arrostiti su carboni di fascine di vigna con aglio, mentuccia e abbondantissimo olio extra vergine. Oltre a queste preparazioni, si possono ricordare la cicoria strascinata – ripassata in padella con aglio, olio extra vergine e peperoncino –, le fave col guanciale e quelle consumate crude con il pecorino, l’insalata di erbe di campo selvatiche, e soprattutto le puntarelle, ricavate da un tipo particolare di cicoria, arricciata e condita con un trito di aglio, acciughe, aceto e olio extra vergine di oliva Canino, Sabina, Colline Pontine e Tuscia, tutti DOP.
Tra i formaggi, un ruolo di primo piano è recitato dal pecorino romano DOP, seguito da pecorino ciociaro, affumicato e di Amatrice, ricotta fresca e secca, provatura, marzolina di capra e mozzarella di bufala dell’Agro Pontino.
I dolci non sono molto numerosi, ma si possono ricordare la crostata con la ricotta e con la crema pasticcera, quella con le visciole di origine giudaico-romanesca, il croccante natalizio, le fave dei morti a base di mandorle e zucchero, le frittelle e i bignè di San Giuseppe. Legati a diverse festività sono le frappe e le castagnole di Carnevale, i maritozzi e i maritozzi quaresimali, arricchiti con uvetta, pinoli e canditi, la zuppa inglese alla romana e il pangiallo romano, dolce natalizio a base di uvetta, cioccolato e tanta frutta secca.